INFERNO

Canto XI

sabato 9 aprile, le 4 del mattino cerchio VI, eretici, vasta pianura Virgilio, Dante, Anastasio II Papa eretici: sepolti nelle arche infuocate secondo la setta di appartenenza - spiegazione di Virgilio sulla disposizione dei dannati
Comincia il canto decimoprimo dello Inferno. Nel quale Virgilio mostra, dal luogo dove è in giù, lo 'nferno esser distinto in tre cerchi, e che gente si punisca in quegli, e assegna la ragione per che quegli, che lasciati hanno, non son nella città di Dite racchiusi.
      In su l’estremità d’un’alta ripa 
che facevan gran pietre rotte in cerchio 
venimmo sopra più crudele stipa; 
      e quivi, per l’orribile soperchio 
del puzzo che ’l profondo abisso gitta, 
ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio 
      d’un grand’avello, ov’io vidi una scritta 
che dicea: "Anastasio papa guardo, 
lo qual trasse Fotin de la via dritta". 
      «Lo nostro scender conviene esser tardo, 
sì che s’ausi un poco in prima il senso 
al tristo fiato; e poi no i fia riguardo». 
      Così ’l maestro; e io «Alcun compenso», 
dissi lui, «trova che ’l tempo non passi 
perduto». Ed elli: «Vedi ch’a ciò penso». 
      «Figliuol mio, dentro da cotesti sassi», 
cominciò poi a dir, «son tre cerchietti 
di grado in grado, come que’ che lassi. 
      Tutti son pien di spirti maladetti; 
ma perché poi ti basti pur la vista, 
intendi come e perché son costretti. 
      D’ogne malizia, ch’odio in cielo acquista, 
ingiuria è ’l fine, ed ogne fin cotale 
o con forza o con frode altrui contrista. 
      Ma perché frode è de l’uom proprio male, 
più spiace a Dio; e però stan di sotto 
li frodolenti, e più dolor li assale. 
      Di violenti il primo cerchio è tutto; 
ma perché si fa forza a tre persone, 
in tre gironi è distinto e costrutto. 
      A Dio, a sé, al prossimo si pòne 
far forza, dico in loro e in lor cose, 
come udirai con aperta ragione. 
      Morte per forza e ferute dogliose 
nel prossimo si danno, e nel suo avere 
ruine, incendi e tollette dannose; 
      onde omicide e ciascun che mal fiere, 
guastatori e predon, tutti tormenta 
lo giron primo per diverse schiere. 
      Puote omo avere in sé man violenta 
e ne’ suoi beni; e però nel secondo 
giron convien che sanza pro si penta 
      qualunque priva sé del vostro mondo, 
biscazza e fonde la sua facultade, 
e piange là dov’esser de’ giocondo. 
      Puossi far forza nella deitade, 
col cor negando e bestemmiando quella, 
e spregiando natura e sua bontade; 
      e però lo minor giron suggella 
del segno suo e Soddoma e Caorsa 
e chi, spregiando Dio col cor, favella. 
      La frode, ond’ogne coscienza è morsa, 
pu• l’omo usare in colui che ’n lui fida 
e in quel che fidanza non imborsa. 
      Questo modo di retro par ch’incida 
pur lo vinco d’amor che fa natura; 
onde nel cerchio secondo s’annida 
      ipocresia, lusinghe e chi affattura, 
falsità, ladroneccio e simonia, 
ruffian, baratti e simile lordura. 
      Per l’altro modo quell’amor s’oblia 
che fa natura, e quel ch’è poi aggiunto, 
di che la fede spezial si cria; 
      onde nel cerchio minore, ov’è ’l punto 
de l’universo in su che Dite siede, 
qualunque trade in etterno è consunto». 
      E io: «Maestro, assai chiara procede 
la tua ragione, e assai ben distingue 
questo baràtro e ’l popol ch’e’ possiede. 
      Ma dimmi: quei de la palude pingue, 
che mena il vento, e che batte la pioggia, 
e che s’incontran con sì aspre lingue, 
      perché non dentro da la città roggia 
sono ei puniti, se Dio li ha in ira? 
e se non li ha, perché sono a tal foggia?». 
      Ed elli a me «Perché tanto delira», 
disse «lo ’ngegno tuo da quel che sòle? 
o ver la mente dove altrove mira? 
      Non ti rimembra di quelle parole 
con le quai la tua Etica pertratta 
le tre disposizion che ’l ciel non vole, 
      incontenenza, malizia e la matta 
bestialitade? e come incontenenza 
men Dio offende e men biasimo accatta? 
      Se tu riguardi ben questa sentenza, 
e rechiti a la mente chi son quelli 
che sù di fuor sostegnon penitenza, 
      tu vedrai ben perché da questi felli 
sien dipartiti, e perché men crucciata 
la divina vendetta li martelli». 
      «O sol che sani ogni vista turbata, 
tu mi contenti sì quando tu solvi, 
che, non men che saver, dubbiar m’aggrata. 
      Ancora in dietro un poco ti rivolvi», 
diss’io, «là dove di’ ch’usura offende 
la divina bontade, e ’l groppo solvi». 
      «Filosofia», mi disse, «a chi la ’ntende, 
nota, non pure in una sola parte, 
come natura lo suo corso prende 
      dal divino ’ntelletto e da sua arte; 
e se tu ben la tua Fisica note, 
tu troverai, non dopo molte carte, 
      che l’arte vostra quella, quanto pote, 
segue, come ’l maestro fa ’l discente; 
sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote. 
      Da queste due, se tu ti rechi a mente 
lo Genesì dal principio, convene 
prender sua vita e avanzar la gente; 
      e perché l’usuriere altra via tene, 
per sé natura e per la sua seguace 
dispregia, poi ch’in altro pon la spene. 
      Ma seguimi oramai, che ’l gir mi piace; 
ché i Pesci guizzan su per l’orizzonta, 
e ’l Carro tutto sovra ’l Coro giace, 
      e ’l balzo via là oltra si dismonta».
 
 

 
 

 
 
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Canto XII

sabato 9 aprile, le 4 del mattino cerchio VII, girone 1°, la frana, la fossa, col Flegetonte Chirone, Nesso, Minotauro, Alessand. Magno, Dionigi di Siracusa Ezzelino da Romano, Obizzo d'Este, Attila, Pirro, Sesto Pompeo violenti contro il prossimo: immersi nel Flegetonte, fiume di sangue bollente, sulla riva del quale si trovano demoni che saettano i dannati che tentano di uscire dal sangue più di quanto la loro pena non consenta.
Comincia il canto decimosecondo dello 'Inferno. Nel quale mostra l'autore come Virgilio facesse partire il Minotauro, fattosi loro incontro, e rendegli la ragione d'una grotta caduta; e come truovano i centauri, e pervengono al fiume di Flegetonte, nel quale vede bollire rubatori e tiranni; e poi Nesso li porta dall'altra parte.
      Era lo loco ov’a scender la riva 
venimmo, alpestro e, per quel che v’er’anco, 
tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva. 
      Qual è quella ruina che nel fianco 
di qua da Trento l’Adice percosse, 
o per tremoto o per sostegno manco, 
      che da cima del monte, onde si mosse, 
al piano è sì la roccia discoscesa, 
ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse: 
      cotal di quel burrato era la scesa; 
e ’n su la punta de la rotta lacca 
l’infamia di Creti era distesa 
      che fu concetta ne la falsa vacca; 
e quando vide noi, sé stesso morse, 
sì come quei cui l’ira dentro fiacca. 
      Lo savio mio inver’ lui gridò: «Forse 
tu credi che qui sia ’l duca d’Atene, 
che sù nel mondo la morte ti porse? 
      Pàrtiti, bestia: ché questi non vene 
ammaestrato da la tua sorella, 
ma vassi per veder le vostre pene». 
      Qual è quel toro che si slaccia in quella 
c’ha ricevuto già ’l colpo mortale, 
che gir non sa, ma qua e là saltella, 
      vid’io lo Minotauro far cotale; 
e quello accorto gridò: «Corri al varco: 
mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale». 
      Così prendemmo via giù per lo scarco 
di quelle pietre, che spesso moviensi 
sotto i miei piedi per lo novo carco. 
      Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi 
forse a questa ruina ch’è guardata 
da quell’ira bestial ch’i’ ora spensi. 
      Or vo’ che sappi che l’altra fiata 
ch’i’ discesi qua giù nel basso inferno, 
questa roccia non era ancor cascata. 
      Ma certo poco pria, se ben discerno, 
che venisse colui che la gran preda 
levò a Dite del cerchio superno, 
      da tutte parti l’alta valle feda 
tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo 
sentisse amor, per lo qual è chi creda 
      più volte il mondo in caòsso converso; 
e in quel punto questa vecchia roccia 
qui e altrove, tal fece riverso. 
      Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia 
la riviera del sangue in la qual bolle 
qual che per violenza in altrui noccia». 
      Oh cieca cupidigia e ira folle, 
che sì ci sproni ne la vita corta, 
e ne l’etterna poi sì mal c’immolle! 
      Io vidi un’ampia fossa in arco torta, 
come quella che tutto ’l piano abbraccia, 
secondo ch’avea detto la mia scorta; 
      e tra ’l piè de la ripa ed essa, in traccia 
corrien centauri, armati di saette, 
come solien nel mondo andare a caccia. 
      Veggendoci calar, ciascun ristette, 
e de la schiera tre si dipartiro 
con archi e asticciuole prima elette; 
      e l’un gridò da lungi: «A qual martiro 
venite voi che scendete la costa? 
Ditel costinci; se non, l’arco tiro». 
      Lo mio maestro disse: «La risposta 
farem noi a Chirón costà di presso: 
mal fu la voglia tua sempre sì tosta». 
      Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso, 
che morì per la bella Deianira 
e fé di sé la vendetta elli stesso. 
      E quel di mezzo, ch’al petto si mira, 
è il gran Chirón, il qual nodrì Achille; 
quell’altro è Folo, che fu sì pien d’ira. 
      Dintorno al fosso vanno a mille a mille, 
saettando qual anima si svelle 
del sangue più che sua colpa sortille». 
       Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle: 
Chirón prese uno strale, e con la cocca 
fece la barba in dietro a le mascelle. 
      Quando s’ebbe scoperta la gran bocca, 
disse a’ compagni: «Siete voi accorti 
che quel di retro move ciò ch’el tocca? 
      Così non soglion far li piè d’i morti». 
E ’l mio buon duca, che già li er’al petto, 
dove le due nature son consorti, 
      rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto 
mostrar li mi convien la valle buia; 
necessità ’l ci ’nduce, e non diletto. 
      Tal si partì da cantare alleluia 
che mi commise quest’officio novo: 
non è ladron, né io anima fuia. 
      Ma per quella virtù per cu’ io movo 
li passi miei per sì selvaggia strada, 
danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo, 
       e che ne mostri là dove si guada 
e che porti costui in su la groppa, 
ché non è spirto che per l’aere vada». 
      Chirón si volse in su la destra poppa, 
e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida, 
e fa cansar s’altra schiera v’intoppa». 
      Or ci movemmo con la scorta fida 
lungo la proda del bollor vermiglio, 
dove i bolliti facieno alte strida. 
      Io vidi gente sotto infino al ciglio; 
e ’l gran centauro disse: «E’ son tiranni 
che dier nel sangue e ne l’aver di piglio. 
      Quivi si piangon li spietati danni; 
quivi è Alessandro, e Dionisio fero, 
che fé Cicilia aver dolorosi anni. 
      E quella fronte c’ha ’l pel così nero, 
è Azzolino; e quell’altro ch’è biondo, 
è Opizzo da Esti, il qual per vero 
      fu spento dal figliastro sù nel mondo». 
Allor mi volsi al poeta, e quei disse: 
«Questi ti sia or primo, e io secondo». 
      Poco più oltre il centauro s’affisse 
sovr’una gente che ’nfino a la gola 
parea che di quel bulicame uscisse. 
      Mostrocci un’ombra da l’un canto sola, 
dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio 
lo cor che ’n su Tamisi ancor si cola». 
      Poi vidi gente che di fuor del rio 
tenean la testa e ancor tutto ’l casso; 
e di costoro assai riconobb’io. 
      Così a più a più si facea basso 
quel sangue, sì che cocea pur li piedi; 
e quindi fu del fosso il nostro passo. 
      «Sì come tu da questa parte vedi 
lo bulicame che sempre si scema», 
disse ’l centauro, «voglio che tu credi 
      che da quest’altra a più a più giù prema 
lo fondo suo, infin ch’el si raggiunge 
ove la tirannia convien che gema. 
      La divina giustizia di qua punge 
quell’Attila che fu flagello in terra 
e Pirro e Sesto; e in etterno munge 
      le lagrime, che col bollor diserra, 
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo, 
che fecero a le strade tanta guerra». 
      Poi si rivolse, e ripassossi ’l guazzo.
 
 

 
 

 
 
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Canto XIII

sabato 9 aprile, verso l'alba cerchio VII, girone 2°: violenti contro se stessi, bosco senza sentiero con alberi privi di foglie e rami contorti Arpie, Pier delle Vigne, un suicida fiorentino, Lano da Siena, Iacopo da Sant'andrea violenti contro se stessi: i suicidi sono trasformati in alberi e le Arpie, facendo scempio delle foglie, li straziano; gli scialacquatori corrono fra gli arbusti per sfuggire ai morsi di cagne insaziabili, dalle quali vengono, una volta raggiunti, divorati a brano a brano
Comincia il canto decimoterzo dello Inferno. Nel quale l'autore mostra esser puniti quegli che se medesimi uccidono, trasformati in bronchi, di ciò parlando con Pier dalle Vigne, e appresso coloro li quali giucarono e guastarono i lor beni, dicendo loro essere sbranati da cagne nere.
      Non era ancor di là Nesso arrivato, 
quando noi ci mettemmo per un bosco 
che da neun sentiero era segnato. 
      Non fronda verde, ma di color fosco; 
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti; 
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco: 
      non han sì aspri sterpi né sì folti 
quelle fiere selvagge che ’n odio hanno 
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. 
      Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, 
che cacciar de le Strofade i Troiani 
con tristo annunzio di futuro danno. 
      Ali hanno late, e colli e visi umani, 
piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre; 
fanno lamenti in su li alberi strani. 
      E ’l buon maestro «Prima che più entre, 
sappi che se’ nel secondo girone», 
mi cominciò a dire, «e sarai mentre 
      che tu verrai ne l’orribil sabbione. 
Per• riguarda ben; sì vederai 
cose che torrien fede al mio sermone». 
      Io sentia d’ogne parte trarre guai, 
e non vedea persona che ’l facesse; 
per ch’io tutto smarrito m’arrestai. 
      Cred’io ch’ei credette ch’io credesse 
che tante voci uscisser, tra quei bronchi 
da gente che per noi si nascondesse. 
      Però disse ’l maestro: «Se tu tronchi 
qualche fraschetta d’una d’este piante, 
li pensier c’hai si faran tutti monchi». 
      Allor porsi la mano un poco avante, 
e colsi un ramicel da un gran pruno; 
e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?». 
      Da che fatto fu poi di sangue bruno, 
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi? 
non hai tu spirto di pietade alcuno? 
      Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: 
ben dovrebb’esser la tua man più pia, 
se state fossimo anime di serpi». 
      Come d’un stizzo verde ch’arso sia 
da l’un de’capi, che da l’altro geme 
e cigola per vento che va via, 
      sì de la scheggia rotta usciva insieme 
parole e sangue; ond’io lasciai la cima 
cadere, e stetti come l’uom che teme. 
      «S’elli avesse potuto creder prima», 
rispuose ’l savio mio, «anima lesa, 
ciò c’ha veduto pur con la mia rima, 
      non averebbe in te la man distesa; 
ma la cosa incredibile mi fece 
indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa. 
      Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece 
d’alcun’ammenda tua fama rinfreschi 
nel mondo sù, dove tornar li lece». 
      E ’l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi, 
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi 
perch’io un poco a ragionar m’inveschi. 
      Io son colui che tenni ambo le chiavi 
del cor di Federigo, e che le volsi, 
serrando e diserrando, sì soavi, 
      che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi: 
fede portai al glorioso offizio, 
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi. 
      La meretrice che mai da l’ospizio 
di Cesare non torse li occhi putti, 
morte comune e de le corti vizio, 
      infiammò contra me li animi tutti; 
e li ’nfiammati infiammar sì Augusto, 
che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti. 
      L’animo mio, per disdegnoso gusto, 
credendo col morir fuggir disdegno, 
ingiusto fece me contra me giusto. 
      Per le nove radici d’esto legno 
vi giuro che già mai non ruppi fede 
al mio segnor, che fu d’onor sì degno. 
      E se di voi alcun nel mondo riede, 
conforti la memoria mia, che giace 
ancor del colpo che ’nvidia le diede». 
      Un poco attese, e poi «Da ch’el si tace», 
disse ’l poeta a me, «non perder l’ora; 
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace». 
      Ond’io a lui: «Domandal tu ancora 
di quel che credi ch’a me satisfaccia; 
ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora». 
      Perciò ricominciò: «Se l’om ti faccia 
liberamente ciò che ’l tuo dir priega, 
spirito incarcerato, ancor ti piaccia 
      di dirne come l’anima si lega 
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi, 
s’alcuna mai di tai membra si spiega». 
      Allor soffiò il tronco forte, e poi 
si convertì quel vento in cotal voce: 
«Brievemente sarà risposto a voi. 
      Quando si parte l’anima feroce 
dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta, 
Minòs la manda a la settima foce. 
      Cade in la selva, e non l’è parte scelta; 
ma là dove fortuna la balestra, 
quivi germoglia come gran di spelta. 
      Surge in vermena e in pianta silvestra: 
l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie, 
fanno dolore, e al dolor fenestra. 
      Come l’altre verrem per nostre spoglie, 
ma non però ch’alcuna sen rivesta, 
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.  
      Qui le trascineremo, e per la mesta 
selva saranno i nostri corpi appesi, 
ciascuno al prun de l’ombra sua molesta». 
      Noi eravamo ancora al tronco attesi, 
credendo ch’altro ne volesse dire, 
quando noi fummo d’un romor sorpresi, 
      similemente a colui che venire 
sente ’l porco e la caccia a la sua posta, 
ch’ode le bestie, e le frasche stormire. 
      Ed ecco due da la sinistra costa, 
nudi e graffiati, fuggendo sì forte, 
che de la selva rompieno ogni rosta. 
      Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!». 
E l’altro, cui pareva tardar troppo, 
gridava: «Lano, sì non furo accorte 
      le gambe tue a le giostre dal Toppo!». 
E poi che forse li fallia la lena, 
di sé e d’un cespuglio fece un groppo. 
      Di rietro a loro era la selva piena 
di nere cagne, bramose e correnti 
come veltri ch’uscisser di catena.  
      In quel che s’appiattò miser li denti, 
e quel dilaceraro a brano a brano; 
poi sen portar quelle membra dolenti. 
      Presemi allor la mia scorta per mano, 
e menommi al cespuglio che piangea, 
per le rotture sanguinenti in vano. 
      «O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea, 
che t’è giovato di me fare schermo? 
che colpa ho io de la tua vita rea?». 
      Quando ’l maestro fu sovr’esso fermo, 
disse «Chi fosti, che per tante punte 
soffi con sangue doloroso sermo?». 
      Ed elli a noi: «O anime che giunte 
siete a veder lo strazio disonesto 
c’ha le mie fronde sì da me disgiunte, 
      raccoglietele al piè del tristo cesto. 
I’ fui de la città che nel Batista 
mutò il primo padrone; ond’ei per questo 
      sempre con l’arte sua la farà trista; 
e se non fosse che ’n sul passo d’Arno 
rimane ancor di lui alcuna vista,  
      que’ cittadin che poi la rifondarno 
sovra ’l cener che d’Attila rimase, 
avrebber fatto lavorare indarno.  
      Io fei gibbetto a me de le mie case».
 
 

 
 

 
 
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